scriminanti religiose e stato laico

Il principio di laicità espresso dalla Consulta con la sentenza n. 203 del 1989, è stato poi precisato da altre sentenze, fra cui quelle in tema di delitti contro il sentimento religioso, come la n. 508 del 2000, con la quale è stato espunto dall’ordinamento l’art. 402 c.p. .  In materia religiosa il principio di laicità può dispiegare un potere più intenso, una maggior portata applicativa, al punto che la dottrina è giunta a definire i delitti contro il sentimento religioso un tema di «laicità in senso stretto» . In questo settore, la laicità non è certamente solo un carattere del diritto penale, ma è un principio vero e proprio, con uno statuto concettuale e normativo di matrice costituzionale in grado di vincolare il legislatore. Gli interrogativi principali a cui s’intende qui dare risposta: i delitti in materia di religione sono compatibili con un modello laico di diritto penale? Ha ancora un senso oggi, in una società secolarizzata, la tutela penale del sentimento religioso? Per poter rispondere a tali domande, è opportuno iniziare da un’analisi del bene giuridico tutelato dai reati in questa materia. Nel 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione, è cominciato un processo di ridefinizione del bene giuridico tutelato, e si sono avuti essenzialmente due orientamenti: il sentimento religioso collettivo (non sempre chiaramente distinguibile dalla religione quale ‘bene di civiltà’) e il sentimento religioso (anche) individuale. A seguito della riforma del 2006 il legislatore non sembra aver preso posizione sul tema. Tuttavia l’insistente richiamo alle confessioni religiose, la procedibilità d’ufficio, la necessaria pubblicità della condotta, la differenza di pena tra il primo e il secondo comma dell’articolo 403 c.p., fanno propendere la dottrina maggioritaria per il primo orientamento e quindi per un bene giuridico superindividuale. Il principio di laicità dello Stato, così come individuato dalla Corte costituzionale, non esclude la religione relegandola a mero fatto privato. La Costituzione stessa tutela le confessioni religiose (art. 8) e la libertà di professare una fede (art. 19). Pertanto i principi del nostro Stato non escludono una tutela penale anche diretta delle religioni . Altresì non incompatibile con un diritto penale laico è la tutela di sentimenti: questi ultimi, pur essendo di natura «psichica-emozionale, sono però delle realtà personalistiche innegabili» largamente presenti nella parte speciale delle legislazioni penali. Tuttavia, essendo il bene giuridico tutelato il sentimento religioso collettivo di tutti i “correligionari” della persona offesa, non solo ritorna surrettiziamente e parzialmente una tutela della religione in quanto tale, quale ‘bene di civiltà’, ma soprattutto viene reso molto più evanescente il contenuto dell’offesa. Laicità del diritto penale e democrazia «sostanziale», cit. (nota 114), 441. 88 individuale ha certamente una sua consistenza, il sentimento collettivo perde molto di quello spessore, a meno che non sia la mera somma dei sentimenti individuali colpiti direttamente dall’offesa. Larghissima parte della dottrina infatti, sia prima che dopo la riforma, si è dichiarata contraria, pur con sfumature differenti, al mantenimento di un nucleo specifico e autonomo di reati a tutela del sentimento religioso. Quasi tutta la dottrina ritiene oggi che, in virtù del principio di extrema ratio, il sentimento religioso (individuale) possa essere tutelato efficacemente «facendo ricorso alle norme penali ordinarie a difesa di beni comuni quali l’onore, la libertà, la pubblica tranquillità» . Inoltre, la dottrina maggioritaria, rilevando la scarsa incidenza statistica dei reati in commento, derivante da una diminuita importanza del sacro nella società odierna, giunge a sostenere l’ipotesi abolizionistica sulla base di un sopravvenuto venir meno del danno sociale derivante dalla violazione dei beni giuridici su cui si basano i reati contro il sentimento religioso .Tale ipotesi dottrinale, recuperando un indirizzo della Corte costituzionale, cerca di garantire una maggiore vicinanza della materia al principio di laicità, in quanto avrebbe il fine di evitare i pericoli per la pubblica tranquillità (bene giuridico indubbiamente più laico rispetto al sentimento religioso), derivanti dalle pericolose reazioni dei fedeli offesi nel proprio sentimento religioso. In realtà il problema sta qui nella lontananza fra la condotta del vilipendio di persone o cose atte a offendere una religione, e la finalità di proteggere la pubblica tranquillità dalle reazioni emotive che potrebbero generarsi da tali condotte. Il risultato finale sarebbe che tutti i reati di religione diverrebbero reati di pericolo astratto e ciò che guadagnerebbero in laicità lo perderebbero in offensività. Si dice che tale orientamento minoritario parrebbe rafforzato dall’irrompere sulla scena internazionale in tempi recenti di integralismi refrattari alla comprensione e al dialogo tra le diverse fedi. Un tema comune questo, al lungo dibattito, non solo della dottrina giuridica, sui limiti della satira e, più in generale, sui limiti della libertà di manifestazione del pensiero, seguito soprattutto all’attentato terroristico alla sede di Charlie Hebdo del 7 Gennaio 2015 in Francia. Innanzitutto, ad avviso di chi scrive, mentre l’Islam è certamente una confessione religiosa ammessa nel nostro paese e pertanto tutelata dalle norme anche penali, il fondamentalismo islamico che viene praticato (anche) dai terroristi dell’ISIS, non può ricevere riconoscimento e tutela nel nostro ordinamento quale confessione religiosa, in quanto contrario ai nostri principi costituzionali, esattamente come non può ottenere riconoscimento e tutela una setta satanica. Il fenomeno del fondamentalismo islamico che si manifesta oggi, purtroppo, quasi giornalmente con attacchi terroristici al mondo occidentale, è qualcosa di così estremo, esterno, avulso dalle nostre regole sociali ed espressione di un mondo diverso dal nostro, che non può essere da noi occidentali considerato manifestazione di un sentimento religioso di cui tenere conto. Gli attacchi terroristici di questi fanatici devono subire una valutazione di «irricevibilità giuridica», tale per cui non possano in alcun modo condizionare le nostre legislazioni e, soprattutto, la nostra libertà di manifestazione del pensiero.  Un’ultima questione da affrontare è comprendere se i reati in tema di religione, utilizzando un termine quale ‘vilipendio’, rispettano il principio di legalità di cui all’articolo 25 comma 2 della Costituzione. Il lemma ‘vilipendio’ nasce dalla crasi fra i termini latini vilis e pendere, e quindi etimologicamente significa «reputare di scarso valore». Nel linguaggio comune si usa il termine ‘vilipendio’ altresì per indicare «un giudizio di disvalore pronunciato con contumelia o scherno»  Il ‘vilipendio’, che nei reati in questione indica la modalità della condotta al fine di offendere la religione, è un concetto normativo extra-giuridico di natura etico-sociale. Gli elementi normativi di questo tipo, sono tendenzialmente imprecisi e rispettano il principio di precisione (o tassatività) solo se non danno adito ad incertezze circa la norma sociale richiamata e circa il contenuto e l’ambito applicativo di tale norma . La condotta tipica nei reati di vilipendio, assumendo che quest’ultimo sia elemento normativo extragiuridico, si presenterà con «sfumature diverse a seconda dell’oggetto materiale della condotta», in relazione alle diverse valutazioni sociali che verranno date., I delitti contro le confessioni religiose dopo la legge 24 Febbraio 2006, n. 85, cit., 57. 91 per cui si possa comprendere se il concreto vilipendio rientri o meno nel socialmente accettabile.  La dottrina penalistica più autorevole tuttavia, dubita del fatto che il giudice sia sempre in grado di effettuare questa funzione adeguatricee che, a ogni modo, tale operazione si presenterà sempre con ampi margini di incertezza in una società moderna e pluralistica dove le norme etiche non hanno contorni univoci. Il vilipendio, secondo molti, è dunque un elemento manifestamente impreciso e la dottrina più autorevole ha invocato l’abolizione dei reati in commento per violazione del principio di precisione, come corollario del principio costituzionale di legalità. Ma, come insegnava Giovanni Conso, «l’insopportabile vaghezza delle offese alla religione» ha una ragione storica: nel XIX secolo, i diritti di libertà erano appena stati riconosciuti e il principio di laicità si stava facendo strada, e così il legislatore, per paura di perdere potere politico, decide di inserire norme «ambigue e imprecise, dove tutto può entrare a seconda delle simpatie e delle antipatie e dove tutto sa di arbitrio. Siamo cioè al cospetto di un tipico modo escogitato per bloccare con ipocrisia i diritti di libertà, per mortificare la tipicità delle fattispecie comuni, sostituendole, in materia di tutela penale della religione, con modelli di fattispecie più rarefatti e imprecisi» . Negli anni ’70, per sopperire al mutismo del legislatore, è dovuta intervenire la Corte costituzionale con una sentenza interpretativa di rigetto per chiarire il significato di vilipendio: « [esso] consiste nel tenere a vile, nel ricusare qualsiasi valore etico o sociale o politico all’entità contro cui la manifestazione è diretta sì da negarle ogni prestigio, rispetto, fiducia in modo idoneo a indurre i destinatari della manifestazione […] al disprezzo delle istituzioni o addirittura a ingiustificate disobbedienze […] con evidente e inaccettabile turbativa dell’ordinamento politico-sociale». Necessario inoltre distinguere il vilipendio della religione dalle discussioni su temi religiosi, protette dall’art. 21 della Costituzione: «Sono invece vilipendio […] la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine a sé stessa». Questi interventi della Consulta, se da un lato sono fondamentali ai fini di permettere l’applicazione delle norme più indefinite, dall’altro, compiendosi attraverso sentenze interpretative di rigetto, che come è noto non sono efficaci erga omnes, sono semplicemente dei palliativi che non risolvono il problema. Ad avviso di chi scrive, sarebbe stato più utile effettuare una declaratoria di incostituzionalità per violazione del principio di precisione, così da permettere al legislatore di risvegliarsi dal torpore e avvedersi del problema intorno al vilipendio presente sin dal 1889. Ad oggi sono differenti le modalità di concretizzazione del vilipendio: ad esempio, l’espressione in pubblico di discorsi, scritti, raffigurazioni di scherno, ingiuriosi e che manifestano disprezzo nei confronti del credente. In conclusione, è possibile affermare che in materia di delitti di religione vi sono state e permangono vistose violazioni del principio di laicità e di uguaglianza, che ne determinano l’attuale incostituzionalità per i motivi suddetti, ma soprattutto vi sono seri dubbi sulla legittimità del suo mantenimento all’interno del codice penale, per la vaghezza delle disposizioni, l’evanescenza del bene giuridico tutelato, l’immaterialità e assenza di corpus e l’irrilevanza Non si può nascondere tuttavia la fortissima valenza simbolica e politica che hanno questi reati. Se si portasse in Parlamento domani una proposta abolizionista dei reati in oggetto, se è quasi certamente vero, come sostiene la dottrina, che il paese non ne soffrirebbe affatto, infurierebbero immediatamente una miriade di polemiche sia dentro che fuori il Parlamento, a testimonianza del fatto che viviamo oggi in una società post-secolare, dove le religioni hanno un ruolo pubblico e influenzano pesantemente le attività dello Stato. Il risultato di un attacco politico diretto contro le norme a tutela delle religioni, molto probabilmente quindi produrrebbe l’effetto contrario di quello voluto: un rafforzamento ideologico e politico delle norme di cui agli artt. 403 c.p. e ss., con consequenziale loro sopravvivenza, accompagnata da un alto rischio per il partito proponente la riforma di perdere consenso sociale e quindi voti.  Preliminarmente infatti si può notare che sono presenti, in alcune norme di parte speciale a bassa offensività, delle clausole di illiceità speciale (ad esempio, «senza giustificato motivo»). Nella parte generale del codice penale, pur non essendo presenti norme specificamente pensate per i ‘reati culturali’, possono entrare in gioco, solo per i reati a bassa offensività, alcuni istituti. In primo luogo, l’esercizio di un diritto in funzione scriminante quando vi è una norma religiosa ad imporre un determinato comportamento (art. 51 c.p.): sia la Costituzione che la CEDU infatti, garantendo il diritto a professare una fede, possono agire come causa di giustificazione. Per fare un esempio, si potrebbe citare il caso della circoncisione maschile. Un altro istituto di parte generale che può venire utilizzato per questi reati, è l’ignoranza inevitabile della legge penale di cui all’art. 5 c.p., a seguito della rilettura della Consulta con la sentenza n. 364 del 1988480. Cittadini stranieri di passaggio o appena giunti in Italia, che avevano commesso reati bagatellari, sono stati infatti assolti dai giudici di merito in più occasioni, per ignoranza inevitabile della legge penale italiana. Inoltre, ‘l’errore di fatto che esclude il dolo’ di cui all’art. 47 c.p. può, in alcuni casi, portare all’assoluzione in quanto il soggetto può essere indotto in errore per via di errate percezioni (errore di fatto) o per via della propria ignoranza dei costumi italiani (errore di diritto) . Tali istituti, che possono portare ad esiti assolutori in caso di reati culturali a bassa offensività, come si anticipava, non possono agire allo stesso modo per i reati ad alta offensività (maltrattamenti, lesioni, violenze sessuali, omicidi, ecc…), e ciò per diverse ragioni. In primo luogo, i diritti lesi dai reati ad alta lesività, bilanciati con il diritto alla libertà religiosa, non possono che prevalere rispetto a questo. Infatti, secondo l’orientamento prevalente, si deve negare efficacia esimente al diritto di libertà religiosa in ogni caso in cui esso «soffra di un limite esterno e invalicabile al proprio esercizio, derivante dal contrasto con un interesse di predominante rilievo costituzionale, incorporato nell’oggettività giuridica della norma penale» . L’esercizio del diritto alla libertà religiosa viene «ad essere legittimamente limitato e circoscritto ab externo da norme penali poste a tutela di interessi preminenti (o, almeno, di pari rango), sul piano dei valori costituzionali, quali, in primis, i diritti inviolabili dell’individuo di cui all’art. 2 Cost.» . Si approfondirà l’argomento nel prossimo paragrafo. In secondo luogo, la giurisprudenza ha negato l’insussistenza del dolo per errore sul fatto in caso di reati ad elevata offensività, in quanto il disvalore della condotta sarebbe universalmente percepibile, poiché contrastante con «criteri naturali di pacifica convivenza fra esseri umani» . Infine, nemmeno l’ignoranza inevitabile della legge penale potrebbe portare, per i reati gravi, ad un’assoluzione. Secondo la Corte di Cassazione, «basterà richiamare l’evoluzione, al giorno d’oggi, dei rapporti internazionali, sotto il profilo degli scambi socio-culturali (diffusione dei mezzi di comunicazione, reciproca conoscenza di usi e costumi) ed il fenomeno delle immigrazioni, per rendersi conto delle conseguenze aberranti della ‘generalizzazione’ del principio dell’ignoranza scusabile della legge del paese ospitante, invocata in base alla diversità della tutela penale rispetto al paese d’origine» Tirando le somme, vi è un orientamento consolidato della Cassazione per cui, rispetto ai reati culturalmente motivati c.d. ‘ad elevata offensività’, viene respinta ogni strategia difensiva basata sulla diversità culturale, che punti all’assoluzione dell’imputato. Si è parlato infatti, di «teoria dello “sbarramento invalicabile”», secondo la quale «i principi costituzionali dettati: dall’art. 2 Cost. […] dall’art. 3 Cost. […], costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come antistorici a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero»  . Il fattore culturale tuttavia potrebbe emergere in sede di commisurazione della pena. La Cassazione infatti, ritiene che i criteri di cui all’art. 133 comma 2 n. 1 e 4 c.p., dei «motivi a delinquere», e delle «condizioni di vita individuale, famigliare e sociale del reo», siano in grado di valorizzare la motivazione culturale .