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responsabilità amministrativa degli enti ed indagini preliminari

Il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ha rappresentato una vera e propria svolta nell’ambito sia del diritto penale che del diritto commerciale, intrecciando i profili essenziali di entrambi gli ambiti, restituendo un complesso normativo che è entrato a gamba tesa, tanto nel mondo delle imprese, quanto in quello degli operatori del diritto. Con l’introduzione della responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato, infatti, è stato introdotto un novum all’interno dei meccanismi di governance delle persone giuridiche: il riferimento è chiaramente all’adozione dei compliance programs, cioè quei modelli di organizzazione aziendale idonei, da un lato, a prevenire il rischio di commissione dei reati all’interno dell’azienda e, dall’altro, ad esonerare l’ente dall’addebito di responsabilità amministrativa derivante dalla commissione dei reati-presupposto.

Se questi sono i profili che rilevano dal punto di vista aziendalistico, importanti novità sono state introdotte anche dal punto di vista dell’accertamento processuale di tale tipologia di responsabilità, così come di assoluta rilevanza sono state le questioni relative alla compatibilità di tale istituto con i fondamentali principi costituzionali in materia penale e processuale penale, scaturite soprattutto dal sostanziale superamento del principio contenuto nel brocardo societas delinquere non potest.

Gli articoli del d. lgs. n. 231 del 2001 dedicati alla disciplina della fase delle indagini preliminari sono sostanzialmente quattro (artt. 55 a 58) e si caratterizzano, in linea generale, per essere delle mere disposizioni di raccordo con la disciplina codicistica, la quale trova sostanzialmente integrale applicazione: tutte le norme relative essenziali di tale fase procedimentale sono quindi applicabili anche al rito de societate, ad eccezione di quelle che disciplinano il compimento di atti ontologicamente riferibili solo alla persona fisica (ad esempio, le misure pre-cautelari o il prelievo di campioni biologici su persone viventi). L’unica quanto essenziale differenza dal rito codicistico consiste nella disciplina dell’archiviazione, contenuta nell’art. 58, che predispone una deviazione dal modello codicistico in merito al controllo sul mancato esercizio dell’azione penale.

L’art. 55 disciplina il primo doveroso atto del procedimento, disponendo l’annotazione della notizia dell’illecito amministrativo all’interno del registro di cui all’art. 335 c.p.p., affidando il compito al pubblico ministero, il quale “procede immediatamente” annotando gli elementi identificativi dell’ente, le generalità del suo legale rappresentante ove possibile, nonché il reato da cui dipende l’illecito. Chiaramente tale annotazione viene effettuata contestualmente o successivamente a quella del reato-presupposto e, come questa, può essere inizialmente effettuata contro ignoti, dovendo poi essere aggiornata.

Quanto al comma 2 dell’art. 55, esso dispone la possibilità per l’ente e il suo difensore di effettuare la richiesta ex art. 335, comma 3 c.p.p., al fine di conoscere la sussistenza di annotazioni a carico della persona giuridica.

L’importanza del momento di annotazione della notizia, nella sua completezza identificativa, la evidenzia il comma 2 dell’art. 56, il quale individua in esso il momento in cui inizia a decorrere il termine di durata massima delle indagini preliminari. Nonostante la disposizione faccia riferimento al “termine per l’accertamento dell’illecito amministrativo”, è ragionevole ritenere che si tratti di un lapsus del legislatore. Quanto all’entità del termine di durata massima delle indagini, esso, a norma dell’art. 56, comma 1, viene fissato nello stesso termine previsto per le indagini preliminari relative al reato-presupposto, operandosi quindi un rinvio alla disciplina codicistica dei termini (artt. 405 e ss. c.p.p.).

Va sottolineata, però, una differenza nell’ambito della disciplina dell’avocazione delle indagini ex art. 412 c.p.p., per la quale, a norma dell’art. 413 c.p.p., la richiesta può provenire anche dalla persona offesa: nel procedimento a carico dell’ente ciò non è replicabile, dato che ivi la persona offesa non ha titolo per intervenire (la specificazione si rende doverosa in virtù, da un lato, della mancata possibilità per la p.o. di costituirsi parte civile e, dall’altro, della eventualità che si proceda autonomamente nei confronti dell’ente ex art. 8).

Nonostante quello dell’annotazione sia un vero e proprio obbligo a carico del pubblico ministero e non una scelta discrezionale, data la previsione della sanzione disciplinare a carico del magistrato, la prassi inosservante è purtroppo ampiamente diffusa, minando all’effettività del sistema predisposto dal legislatore del 2001. Il motivo di tale ingiustizia lo si rinviene sostanzialmente nel fatto che, data anche la peculiarità disciplina dell’archiviazione (v. infra), si è propagata la convinzione della libera scelta del PM nell’indagare o meno la persona giuridica (o nel formalizzare lo status di indagato).

Le ultime due disposizioni del d. lgs. cit. che si occupano della fase delle indagini preliminari sono quelle contenute negli artt. 57 e 58, rispettivamente relative all’informazione di garanzia e all’archiviazione degli atti. Quanto alla informazione di garanzia, la normativa di riferimento è quella di cui all’art. 369 c.p.p., integrate dalle specificazioni contenute nell’art. 57, cioè “l’invito a dichiarare ovvero eleggere domicilio per le notificazioni nonché l’avvertimento che per partecipare al procedimento [l’ente] deve depositare la dichiarazione di cui all’art. 39, comma 2”. Sicuramente applicabile è anche l’art. 369-bis, relativo alle informazioni sul diritto di difesa.

Quanto alla disciplina dell’archiviazione, essa, come noto, costituisce uno dei due esiti alternativi della fase delle indagini preliminari, rappresentando il mancato esercizio dell’azione da parte del pubblico ministero. Data l’obbligatorietà dell’azione penale affermata dall’art. 112 Cost., nel rito codicistico è stato affidato al giudice per le indagini preliminari il compito di vigilare sulla correttezza dell’agire del PM. In maniera vistosamente derogatoria rispetto agli artt. 408 e ss. c.p.p., invece, nel rito de societate, l’art. 58 prevede che, a disporre il provvedimento di archiviazione, non sia il GIP su richiesta del pubblico ministero, ma direttamente quest’ultimo, con decreto motivato, assistendosi alla sostituzione del controllo giurisdizionale con quello gerarchico, sulla scia di quanto previsto per il procedimento sanzionatorio amministrativo ex art. 18, comma 2 l. 24 novembre 1981, n. 689. Infatti, la disposizione continua affermando l’obbligo in capo al pubblico ministero di comunicare il decreto di archiviazione degli atti al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, il quale “può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano le condizioni, contesta all’ente le violazioni amministrative conseguenti al reato entro sei mesi dalla comunicazione”.

La scelta del legislatore riposa sulla valutazione di inapplicabilità al procedimento a carico degli enti del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost.: infatti, stando ai compilatori, trattandosi di un illecito amministrativo, “non sussiste l’esigenza di controllare il corretto esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero”. Stando alle parole del legislatore, sarebbe addirittura da ritenere che il controllo gerarchico previsto dall’art. 58 sia quasi un’aggiunta non necessaria. Tuttavia, forte è la critica della dottrina, sottolineandosi che la necessità di un controllo giurisdizionale è ravvisabile nello stretto rapporto con il procedimento penale principale e nell’individuazione ex lege dei casi di archiviazione (infondatezza della notizia, inidoneità degli elementi raccolti a sostenere l’accusa, improcedibilità, estinzione del reato, dell’illecito o della sanzione amministrativa); esso è necessario per garantire una tenuta di effettività del sistema, al fine prevenire scelte discrezionali del pubblico ministero, le quali arrecherebbero un intollerabile pregiudizio al principio generale di uguaglianza. Il pericolo per la tenuta dei principi di legalità e uguaglianza non sarebbe idoneamente neutralizzato dalla previsione di un blando controllo gerarchico.

Altri profili problematici relativamente alla unilateralità del decreto di archiviazione riguardano il rapporto con la revoca delle misure cautelari e con la disciplina della riapertura delle indagini: quanto alla prima questione, dalla lettura degli art. 47 e 50, si ricava che il provvedimento di revoca della misura cautelare dovrebbe essere sempre disposto dal giudice; tuttavia, lo stesso effetto caducatorio conseguirebbe alla decisione di archiviazione del pubblico ministero. Ciononostante, si tratta più di un cavillo formalistico che una questione realmente problematica, atteso che si sostanzia comunque in un favor per l’indagato sottoposto a misura cautelare.

Quanto al rapporto della disciplina contenuta nell’art. 58 con quella della riapertura delle indagini motivata dall’esigenza di nuove investigazioni, sorge l’interrogativo circa la sussistenza di qualche vincolo all’iniziativa del pubblico ministero. Data la chiara opzione del legislatore, pare ovvia la conclusione che nessun tipo di controllo giurisdizionale può essere posto a tale iniziativa del pubblico ministero. Ci si potrebbe allora chiedere se fosse possibile ipotizzare un controllo gerarchico a tale iniziativa: tuttavia, esso sarebbe comunque ineffettivo, data l’impossibilità di prevedere una qualche preclusione sul piano procedimentale all’iniziativa irrituale del PM in tal senso. Di conseguenza, il vuoto normativo lasciato in tale ambito, unitamente alla libertà sostanzialmente lasciata al pubblico ministero ex art. 58, consente a quest’ultimo di impiegare elusivamente lo strumento dell’archiviazione, consentendogli di sottrarsi al vincolo temporale stabilito dall’art. 56 e di continuare a tempo indeterminato la sua informale attività di ricerca.

Tale disciplina dell’archiviazione unilaterale, sottoposta a un mero controllo gerarchico, ha contribuito ad instaurare l’idea della sostanziale libertà dell’organo dell’accusa nel perseguire o meno un determinato illecito amministrativo, lasciandogli la libertà di stabilire le regole di politica criminale, determinando la presenza di un numero oscuro all’interno delle statistiche giudiziarie, con riguardo a quegli illeciti che vengono sistematicamente ignorati dalle procure. Al riguardo, osservando i dati provenienti dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano, ufficio tra quelli più all’avanguardia nell’applicazione del corpus, si può notare che le iscrizioni di illeciti amministrativi in corrispondenza a quelle dei relativi reati-presupposto sono solo il 10%, con uno spread del 90% che sostanzia la cifra grigia che inficia le statistiche di efficienza degli apparati giudiziari.