recidiva e termini di prescrizione

Il tema della prescrizione, a partire dalla sua natura, sostanziale anziché processuale, è uno dei più dibattuti per le questioni che solleva nel rapporto tra ordinamento interno e quello europeo.

Mentre ancora è in itinere il dialogo tra le Corti nazionali ed europee, l’istituto della prescrizione è al centro della pratica giudiziale e pone questioni materiali di non semplice soluzione, a partire dal mero calcolo.

In questa prospettiva, di immediata rilevanza nella pratica, vale la pena di analizzare recente giurisprudenza che, forse, non ha avuto il risalto che meritava. Il tema di cui ci si occupa è quello della possibile violazione del generale principio del ne bis in idem sostanziale nel calcolo della prescrizione del reato commesso dal recidivo (aggravato o reiterato).

Il problema interpretativo ha questa genesi: l’ art. 157 c.p., come noto, prevede che il tempo in cui il reato si prescrive tenga conto del massimo edittale e delle circostanze aggravanti ad effetto speciale (tra queste, pacificamente, la recidiva). Allo stesso modo, l’art. 161 c.p. impone di considerare la recidiva nel calcolo del termine massimo, trascorso il quale, anche in presenza di atti interruttivi, il reato si prescrive.

La prima disposizione stabilisce, quindi, il tempo-base di prescrizione calcolato sul massimo edittale e comunque non inferiore, per i delitti, a 6 anni) e la seconda il tempo-limite (ossia un aumento calcolato, invece, come una frazione del tempo necessario a prescrivere ex art. 157 c.p.); entrambe prevedono un aumento dei tempi di prescrizione nel caso del recidivo aggravato (1/2) e reiterato (2/3), inteso come da art. 99, comma 4, n. 2, c.p.

La Corte di cassazione, in una recente pronuncia (Cass. pen., Sez. VI, 9 settembre 2015, n. 47269, imp. Fallani) avverte il rischio che un simile doppio aumento per la recidiva – il quale, come detto, comporta una dilatazione temporale (1/2 o 2/3) sia sul calcolo del tempo-base, sia su quello del tempo-limite – costituisca una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, poiché si risolverebbe nell’«applicazione in malam partem di un medesimo elemento, la recidiva, nell’ambito del medesimo istituto e cioè della prescrizione. È pertanto possibile tener conto della recidiva reiterata ai fini del termine prescrizionale minimo oppure ai fini del termine prescrizionale massimo. Ma non è possibile tener conto della recidiva reiterata ad entrambi i fini.

Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che non si potesse effettuare il doppio aumento, il quale avrebbe portato il termine massimo di prescrizione ad anni 16, mesi 8 (anni 6 corrispondenti al massimo edittale previsto per il reato, +2/3 per la recidiva reiterata ex art. 157 c.p. ad anni 10; +2/3 ex art. 161 pari alla misura finale di anni 16, mesi 8). La Corte conclude stabilendo che nel caso al suo esame il termine di prescrizione è anni 10, corrispondente al solo aumento ex art. 157 c.p.

È evidente che l’indirizzo interpretativo inaugurato dalla Corte, se adeguatamente recepito, avrebbe avuto un impatto enorme su una rilevante massa di procedimenti che “vivono” in virtù del doppio-aumento.

Tuttavia, la Cassazione, in pronunce successive, dovendo decidere sui ricorsi presentati dai difensori, forti del citato precedente, pare rendersi conto della portata virtualmente dirompente della questione, discostandosi in modo deciso dalla precedente interpretazione.

I tre percorsi motivazionali della Corte non sembrano, tuttavia, sciogliere ogni dubbio.

L’applicazione dell’aumento per la recidiva non sarebbe, nella prospettiva appena descritta, rimesso al libero arbitrio dell’interprete. Semplicemente, se l’aumento opera una prima volta ai sensi dell’art. 157 c.p., allora, non dovrebbe operare una seconda volta, a seguito di atto interruttivo; qualora, invece, non vi fosse stata in concreto una dilatazione del termine ordinario per effetto della recidiva, ecco che essa verrebbe considerata ai sensi dell’art. 161 c.p.

Per fare un esempio, nel caso del reato di cui all’art. 628 c.p. (massimo edittale anni 10), il tempo di prescrizione base per il recidivo aggravato sarebbe di 10 anni + 1/2 = 15 anni; a questo punto, in caso di atto interruttivo, non potrebbe operare di nuovo l’aumento per la recidiva fino al tempo limite, ma solo l’aumento ordinario di 1/4.

Invece, nel caso di un reato punito con la pena massima di anni 3 (come prevede, ad esempio, l’art. 582 c.p.), il termine di prescrizione ordinario sia per il recidivo sia per il non recidivo sarebbe identico (3 + 1/2 = 4 anni, mesi 6 così come 3 + 2/3 = 5 anni, quindi in ogni caso sotto la soglia minima dei 6 anni prevista dall’art. 157 c.p.). La recidiva, che non ha avuto rilevo nel calcolo del termine base, potrebbe così ben venire valutata al fine del maggior aumento previsto, a seguito di atto interruttivo, dall’art. 161 c.p.

Non pare così convincente, dunque, la considerazione che sarebbe rimesso al mero arbitrio dell’interprete quando (ex art. 157 c. p. o ex art. 160 c. p.) applicare l’aumento per la recidiva.

In secondo luogo, non sembra così convincente il rilievo mosso dalla Corte secondo cui il principio del ne bis in idem non troverebbe qui spazio: infatti, anche se, come argomentato, l’istituto della prescrizione «non forma oggetto della tutela apprestata dall’art. 4 del Protocollo n. 7 Cedu, che vieta soltanto “di perseguire o giudicare una persona per un secondo illecito nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi” (tra tante, Grande Camera, Corte Edu, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine c. Russia, p. 82)» (Cass. pen., n. 48954/2016 cit.) ciò non significa che il generale principio del ne bis in idem, nel caso di specie, non possa trovare applicazione nell’ordinamento interno. Infatti,la triade condotta/evento/nesso causale di cui parla la Corte costituzionale (200/2016 cit.), è considerata due volte nonostante rimanga identica a sé stessa, poiché si tratta sempre di un aumento per la recidiva che attiene alla medesima valutazione sulle medesime condotte pregresse del reo, che ne attestano una “qualità personale”, nel senso della maggior pericolosità sociale.

Da ultimo, pare necessario contestare il ritenuto isolamento dell’avversata interpretazione. Infatti, in almeno altre due recenti sentenze, la stessa Corte di Cassazione sembra recepire l’orientamento contrario al doppio aumento. Dapprima la Corte, chiamata a pronunciarsi circa lo spirare del termine di prescrizione, applica l’aumento per la recidiva secondo l’art. 157 c.p. ma non opera, successivamente, l’aumento ex art. 161 c.p. poiché – si legge in motivazione – «va tuttavia considerato che, con riguardo ai reati di cui all’art. 2 (d.lgs.74/2000) appena ricordati, il termine prescrizionale, restando nella specie priva di effetti l’interruzione rappresentata dalla richiesta di rinvio a giudizio in quanto già considerato il prolungamento ai fini dell’art. 157, comma 2, c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 9 settembre 2015, n. 47269, Fallani e altro) e non essendo intervenuta alcuna causa sospensiva, è decorso» (Cass. pen., Sez. III, 19 ottobre 2016, n. 50763.

Ad analoga conclusione sembra pervenire anche un’altra pronuncia della Corte (Cass. Sez. V, 7 dicembre 2016, n. 22197) che, citando il precedente 47269/2015, fissa il termine massimo della prescrizione per il reato previsto dall’art. 624-bis c.p. (pena massima anni 6) a carico di recidivo reiterato (aumento di 2/3) in anni 10, nonostante la presenza di un atto interruttivo. Se avesse operato il doppio aumento, invece, il reato previsto si sarebbe prescritto in anni 16, mesi 8, per effetto dell’ulteriore aumento di 2/3.

Il quadro giurisprudenziale non è perciò ancora definito: la tesi che consente il doppio aumento, come sostenuto con equilibrio, «appare numericamente maggioritaria sebbene in un quadro interpretativo complessivamente ancora non definitivamente consolidato» (Cass. pen., n. 50619/2017 cit.).

L’orientamento che prevede di non operare un doppio aumento in virtù dello stesso fatto, ossia della recidiva, appare ancora presente nella giurisprudenza della Corte, che sembra oscillare fra due estremi del tutto opposti. Da un lato, non tutte le argomentazioni mosse a sfavore del divieto di doppio aumento appaiono pienamente convincenti, dall’altro non si può ignorare che il solco scavato dalla sentenza Taricco tra la prescrizione ex art. 157 c.p. e quella ex artt. 160 e 161 c.p. è sempre più profondo.

Infatti, una delle soluzioni più accreditate per ricomporre la frattura tra ordinamento interno e le decisioni della Corte Edu – la quale, in estrema sintesi, imponeva al Giudice italiano di “disapplicare” la prescrizione in reati di frode sull’Iva per i quali il suo operare garantiva una sostanziale certezza di impunità, tale da rendere inefficace la norma penale – è quella di considerare l’art. 157 c.p.. come disposizione di natura sostanziale (che goda, perciò, della garanzia del nullum crimen, nulla poena sine lege) mentre gli artt. 160 e 161 c.p., che troverebbero “ragione ideale e causa giuridica” in un atto del procedimento (del tutto eventuale per il reo e assolutamente non tutelato ex art. 25 Cost.), avrebbero così natura meramente processuale (in caso di successione di norme si applicherebbe così il criterio del tempus regit actum).

In tal modo, vi sarebbe, dunque, una separazione concettuale forte tra i due termini, tanto da poter parlare di scissione fra natura giuridica della prescrizione e quella dell’interruzione.

Ciò permetterebbe, ai fini che qui interessano, in accordo con l’orientamento maggioritario, di poter operare il doppio aumento per la recidiva ex art. 157 c.p. e anche ex artt. 160 e 161 c.p. poiché si tratterebbe di istituti di natura diversa, decisamente separati l’uno dall’altro.

Tale soluzione non appare, tuttavia, del tutto conforme al divieto del ne bis in idem che è certamente principio generale che anima l’intero ordinamento. Infatti, la dilatazione prescrizionale imposta dall’art. 161 c.p. per il recidivo aggravato o reiterato è una frazione del tempo necessario a prescrivere, che già tiene conto della recidiva. In questo modo, non solo opera un allungamento del termine massimo in virtù dello stesso fatto, il che sembra possibile per i motivi sopra esposti, ma l’aumento successivo è addirittura calcolato sul tempo già aumentato. Per fare un esempio, nel caso di un reato commesso da recidivo aggravato, punito nel massimo in anni 6 (ad esempio ex art. 624 bis c.p.), la prescrizione ordinaria è anni 9, mentre quella massima è anni 13, mesi 6: il calcolo di 1/2 a seguito di atto interruttivo è così avvenuto anche su quei 4 anni e 6 mesi già frutto di aumento per la recidiva. In tal modo, risulta che 2 anni e 3 mesi è il maggior tempo derivante dall’applicazione della recidiva (art. 161 c.p.) sull’aumento dovuto alla stessa recidiva precedentemente considerata.

In conclusione, in virtù di un’interpretazione più ampia del generale principio del ne bis in idem, l’esigenza avvertita da parte della giurisprudenza della Suprema Corte di vietare il doppio aumento dei tempi prescrizionali in virtù della recidiva aggravata o reiterata può essere accolta, se non altro, nel senso di escludere dal secondo calcolo l’applicazione del maggior tempo previsto per la recidiva anche su quella porzione di tempo che costituisce, essa stessa, il mero risultato del primo aumento per la medesima recidiva.