immunità parlamentare

Le vicende delle immunità penali dei Parlamentari nel periodo Repubblicano sono segnate da uno spartiacque: la l. cost. 29 ottobre 1993, n. 3, che ha modificato in maniera decisiva l’originario impianto dell’art. 68 Cost.

Questo articolo era stato approvato dai costituenti senza un significativo dibattito sull’opportunità di prevedere le immunità nella nuova carta costituzionale.

Già sotto lo Statuto Albertino, l’istituto si era infatti radicato nella nostra tradizione giuridica che aveva assunto come modello di riferimento quello delle costituzioni francesi tra la fine del settecento (a partire da quella del 1791) e l’inizio dell’ottocento.

Seguendo tale modello, l’art. 68 Cost. nel testo originario disciplinava le immunità secondo la ben nota suddivisione tra insindacabilità e inviolabilità.

La prima tutela i parlamentari quanto “alle opinioni espresse e ai voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”; ha natura sostanziale poiché elimina in radice l’antigiuridicità del fatto, impedisce il sorgere del reato.

L’inviolabilità ha invece natura processuale, risolvendosi in un impedimento a specifiche attività dell’autorità giudiziaria, che può essere rimosso solo mediante un’autorizzazione della camera di appartenenza del parlamentare.

Questo schema dicotomico viene confermato dalla riforma del 1993. Essa si limita ad una modifica formale al primo comma, ma incide sul regime dell’inviolabilità per tre aspetti assai importanti: elimina l’autorizzazione parlamentare per la sottoposizione a “procedimento penale”; elimina l’autorizzazione per l’arresto o il mantenimento in detenzione in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna; introduce l’autorizzazione per la sottoposizione dei parlamentari a “intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro della corrispondenza”.

Quanto alle ragioni che portarono alla riforma, va ricordato preliminarmente che le camere avevano utilizzato in maniera sempre più estensiva l’autorizzazione a procedere, negandola anche in casi di evidente contrasto con lo spirito della norma costituzionale, così da far parlare diffusamente di un vero e proprio abuso.

In primo luogo, non vi erano termini per la decisione delle camere che poteva essere procrastinata per proteggere un parlamentare dall’azione penale. In secondo luogo, si realizzò un ingiustificato ampliamento dei criteri in base ai quali l’autorizzazione veniva negata: un’ interpretazione estensiva del fumus persecutionis ; la “politicità” o “coloritura politica” del reato ovvero il mero collegamento ad una attività di natura politica anche non rientrante all’esercizio delle funzioni parlamentari (criterio, questo, che avrebbe potuto essere utilizzato congiuntamente e non disgiuntamente dal fumus persecutionis); l’esame del merito del procedimento penale e, quindi, della fondatezza dell’accusa; una interpretazione delle norme penale diversa da quella del magistrato procedente; la scarsa gravità dell’imputazione.

L’autorizzazione a procedere veniva sempre più percepita dall’opinione pubblica come un privilegio di “casta”. Ad operare da detonatore fu l’inchiesta c. d. Mani pulite e il vertiginoso aumento delle richieste di autorizzazione a procedere per reati che sono stati definiti “simoniaci”, vale a dire collegati a traffico di danaro.

Così una classe politica che per molti anni aveva governato il paese, screditata agli occhi dell’opinione pubblica, timorosa e incerta nella ricerca di una via d’uscita, giunse all’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 1993. L’elemento più rilevante è costituito dal superamento del principio per il quale le camere erano gli unici giudici della loro composizione, e ciò sia riguardo a situazioni temporanee (un arresto di breve durata), sia riguardo a situazioni definitive (un arresto a seguito di condanna a un lungo periodo di detenzione, la pronuncia di decadenza, l’annullamento di un’elezione).

Oggi, essendo stata abolita l’autorizzazione a procedere e non essendo più richiesta l’autorizzazione per l’arresto o il mantenimento in detenzione di un parlamentare in esecuzione di una sentenza irrevocabile, è possibile che le camere si vedano private di un loro componente e vedano, quindi, alterata la loro composizione, per l’ordinario decorso di un processo.

Inoltre, i poteri delle camere in materia di immunità hanno perso il carattere di prerogativa insindacabile. Per molti anni dopo l’entrata in vigore della costituzione si è ritenuto che le decisioni parlamentari in materia fossero atti politici, assolutamente discrezionali e non soggetti ad alcun controllo di tipo giuridico. Con la sent. 1150/88 però la Corte Costituzionale affermò che una deliberazione delle camere in materia di insindacabilità può essere sottoposta al suo controllo in sede di conflitto di attribuzione sollevato dai giudici ordinari , in modo da rendere verificabile il corretto utilizzo della prerogativa da parte del parlamento.

La riforma del 1993 ha apportato una modifica solo formale al primo comma dell’art.68 stabilendo che i membri del parlamento non possono essere “chiamati a rispondere delle” (invece che “perseguiti per le”) opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Si è detto che con ciò si volle consolidare il principio del carattere assoluto, sotto il profilo penale, civile, amministrativo, disciplinare, dell’irresponsabilità

Con la revisione del 1993 la questione dell’ambito materiale della prerogativa, ovvero di quali siano i comportamenti dei parlamentari che rientrano nel concetto di opinioni espresse e voti dati “nell’esercizio delle loro funzioni” si è posta con accenti nuovi.

Le camere hanno teso ad ampliare l’applicazione dell’insindacabilità, la magistratura ha reagito a questo orientamento e il numero dei conflitti di attribuzione si è impennato.

Quali le ragioni di questo fenomeno? Innanzi tutto, si deve tener presente che se la prerogativa si applica pacificamente agli atti propri della funzione parlamentare tipizzati in norme costituzionali o dei regolamenti parlamentari, quali i discorsi pronunciati nei dibattiti all’interno di organi parlamentari, la presentazione di progetti di legge e di emendamenti, di interrogazioni, interpellanze, mozioni, risoluzioni, ordini del giorno, dubbi sono sorti riguardo agli atti parlamentari c.d. atipici, cioè non previsti da norme, ma che hanno tuttavia un qualche collegamento con l’attività parlamentare, come, ad esempio (i casi si sono posti nella giurisprudenza della corte), l’invio di lettere tra parlamentari, interventi in sedi non pubbliche, atti di sindacato ispettivo dichiarati inammissibili dalle presidenze delle camere.

E’ necessario tener presente poi, come ha riconosciuto la Corte Costituzionale (sent. 320/2000) che: “L’attività dei membri delle camere nello Stato democratico rappresentativo è per sua natura destinata … a proiettarsi al di fuori delle aule parlamentari, nell’interesse della libera dialettica politica che è condizione di vita delle istituzioni democratico-rappresentative”.

Ciò ha posto il problema dell’estensibilità delle immunità ad attività di natura politica in senso lato, che costituiscono cioè una proiezione esterna al parlamento della contesa politica.

Prima della riforma del 1993, le Camere di fronte a casi riguardo ai quali poteva esser dubbia l’applicabilità del primo comma dell’art.68, avevano la via di uscita di negare l’autorizzazione a procedere e ciò facevano, come si è già detto, con larghezza. Si veniva così a realizzare quella che è stata definita una “insindacabilità indiretta o impropria”, una tutela senz’altro meno efficace perché si risolveva in un impedimento processuale temporaneo che veniva meno con la perdita dello status di parlamentare, ma che comunque poneva al riparo dal procedimento penale.

Con la riforma del 1993 e l’abolizione dell’autorizzazione delle Camere, il Parlamento tentò comunque di garantire massima tutela al proprio parlamentare: non essendo più in possesso dello strumento dell’autorizzazione a procedere, hanno cercato di dilatare al massimo l’ambito di applicazione dell’insindacabilità.

Le Camere hanno infatti trasferito dal vecchio terreno dell’autorizzazione a procedere a quello dell’insindacabilità il criterio della natura o coloritura politica del comportamento dedotto in giudizio. Sull’assunto che le funzioni di un parlamentare non sono ristrette al recinto delle sedi istituzionali, ma si proiettano nella vita del paese, hanno ritenuto che godano della tutela dell’insindicabilità tutte le manifestazioni di opinione che pur esterne all’attività parlamentare siano collocate in un contesto di dibattito politico, abbiano un qualche collegamento, “una qualche relazione tematica – anche indiretta – con gli argomenti dell’attualità politica, sia locale che nazionale, sia specificamente trattate in procedure parlamentari che in altra sede”. Sono stati così qualificati “opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari”, interventi sulla stampa, in trasmissioni radiofoniche o televisive ed anche comportamenti materiali, quali l’occupazione di una sede stradale o l’interruzione di un pubblico servizio, in quanto manifestazione di un’opinione politica.

A questo orientamento estensivo si è contrapposta la giurisprudenza della corte costituzionale, più volte chiamata a pronunciarsi in sede di conflitto di attribuzioni tra le camere e la magistratura, ma anche, con la sent. 120/2004, in sede di giudizio di legittimità costituzionale della l.140/2003 che, con grande ritardo e dopo una serie di 19 decreti-legge non convertiti, ha dettato le norme di attuazione all’art.68 cost.. Oltre a disciplinare il procedimento per la deliberazione parlamentare sull’insindacabilità (la c.d. pregiudiziale parlamentare rispetto al processo in cui è parte un parlamentare), la legge, all’art. 3, c.1, ha infatti elencato le attività riguardo alle quali si applica il primo comma dell’articolo, indicando, oltre gli atti tipici di cui prima si è detto, “ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione parlamentare, espletata anche fuori del parlamento”.

E’ alla giurisprudenza della Corte che ci si deve dunque rifare per individuare i confini attuali della prerogativa dell’insindacabilità.

La Corte ha sottolineato come l’art. 68 contiene principi che presiedono alla garanzia delle attribuzioni delle camere e dell’autorità giudiziaria contro reciproche interferenze e, al contempo, sono preordinati alla tutela di beni costituzionali potenzialmente configgenti, i quali, per coesistere, debbono essere di volta in volta contemperati per essere resi tra loro compatibili: da un lato l’autonomia delle funzioni parlamentari come area di libertà politica delle assemblee rappresentative; dall’altro la legalità e l’insieme dei valori costituzionali che in essa si puntualizzano (eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, eguale tutela giurisdizionale e diritto di agire e di difendersi in giudizio,ecc.) (sent. 379/96 e 120/2004). Nel contemperare questi principi costituzionali, la corte ha ritenuto che fosse più agevole procedere mediante la definizione in negativo dei rispettivi ambiti di competenza delle camere e dell’autorità giudiziaria. Il limite estremo della prerogativa dell’insindacabilità è che questa non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe una immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera qualità di parlamentare. Sono perciò coperti dall’immunità non tutti i comportamenti dei membri delle camere, ma solo quelli strettamente funzionali all’esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo (sent.120/2004).

La Corte ha sviluppato la sua giurisprudenza intorno al concetto di “nesso funzionale” tra espressione di “opinioni” e di “voti” ed esercizio delle funzioni parlamentari. Il nesso funzionale deve qualificarsi non come semplice collegamento di argomento o di contesto fra attività parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare (sent.10/2000). Nella sfera dell’insindacabilità la corte fa quindi rientrare non solo gli atti tipici della funzione parlamentare, ma anche quelli “innominati” o atipici, comunque rientranti nel campo di applicazione del diritto parlamentare, che il membro del parlamento è in grado di porre in essere e di utilizzare proprio solo e in quanto riveste tale carica (sent. 56/2000; sent. 219/2003, relativa ad una lettera inviata da un deputato al presidente della commissione antimafia; sent. 379/2003 relativa ad una interrogazione dichiarata inammissibile dalla presidenza della camera). La Corte ha ritenuto, cioè, non esservi una sorta di automatica equivalenza tra l’atto non previsto dai regolamenti parlamentari e l’atto estraneo alla funzione parlamentare, dovendosi verificare in concreto, riguardo al contesto in cui l’atto è stato posto in essere, l’esistenza di quel nesso idoneo a far qualificare l’atto quale esercizio della funzione parlamentare. Così ragionando, il luogo del comportamento non ha rilevanza decisiva al fine di stabilire il nesso funzionale: vi sono atti compiuti all’interno delle sedi delle camere che non sono insindacabili (vedi la sent.509/2002 che annullò una delibera di insindacabilità della camera dei deputati relativa ad una conversazione privata tra due parlamentari avvenuta alla buvette), mentre vi sono atti compiuti al di fuori delle camere che sono insindacabili (come potrebbero essere opinioni espresse da parlamentari che partecipano ad attività esterne di commissioni parlamentari, in particolare di commissioni di inchiesta, o che fanno parte di delegazioni delle camere).

Per quanto riguarda le opinioni espresse da membri delle Camere extra moenia, la corte con le sentenze n. 10 e 11 del 2000 ha fatto proprio il criterio c.d. della divulgazione o riproduzione, che, come si è detto, era stato già enucleato in passato nella prassi parlamentare. Queste sentenze sono particolarmente importanti perché con esse la corte specifica e consolida un indirizzo cui è rimasta ancorata in tutta la giurisprudenza successiva19. Perché le manifestazioni esterne di opinione possano essere considerate rientranti nella tutela del primo comma dell’art. 68, ovvero perché possa dirsi sussistente il “nesso funzionale”, non è sufficiente che esse si inseriscano in un contesto genericamente politico, né che vi sia una semplice comunanza di argomento con opinioni espresse in sede parlamentare. E’ necessario che le dichiarazioni possano essere identificate come divulgative all’esterno di attività parlamentari, che esse cioè riproducano all’esterno opinioni espresse in atti o attività parlamentari o che esista se non un’identità formale, una corrispondenza sostanziale. L’attività parlamentare deve necessariamente precedere la manifestazione d’opinione esterna, il nesso funzionale deve intercorrere l’attività divulgativa all’esterno e le opinioni ”già espresse, o contestualmente espresse” nell’esercizio di funzioni parlamentari, risultando irrilevanti opinioni manifestate nell’esercizio delle funzioni, ma successivamente (sent. 289/98 e 347/2004). La corte ha richiesto anche un’ identità soggettiva nel senso che per esservi insindacabilità il parlamentare deve divulgare all’esterno opinioni espresse nelle camere da lui personalmente e non da colleghi. La giurisprudenza della corte ha il merito di ancorare ad un parametro certo la riconducibilità all’immunità del primo comma dell’art. 68 delle opinioni espresse da membri delle camere al di fuori delle sedi parlamentari.

Dopo la riforma del 1993, l’inviolabilità si sostanzia in quattro autorizzazioni ad acta che garantiscono il parlamentare nel processo penale limitatamente al periodo in cui egli è in carica.

Esse sono: 1) l’autorizzazione all’arresto e alle privazioni della libertà personale come misure cautelari, salva l’esecuzione di condanna irrevocabile o la flagranza di reato nei casi di arresto in flagranza obbligatorio; 2) l’autorizzazione alle perquisizioni personali e domiciliari; 3) l’autorizzazione all’effettuazione di intercettazioni in qualsiasi forma di conversazioni e comunicazioni; 4) l’autorizzazione al sequestro di corrispondenza.

La ratio complessiva dell’inviolabilità è stata evidenziata con chiarezza e sinteticità in una recente sentenza della Corte costituzionale, la n. 390/2007, emessa in sede di esame di legittimità costituzionale di disposizioni della l. 140/2003. Una sentenza che, peraltro, riflette orientamenti già manifestati in dottrina.

Secondo la corte, l’art. 68 cost. “mira a porre a riparo il parlamentare da illegittime interferenze giudiziarie sull’esercizio del suo mandato rappresentativo; a proteggerlo, cioè, dal rischio che strumenti investigativi di particolare invasività o atti coercitivi delle sue libertà fondamentali possano essere impiegati con scopi persecutori, di condizionamento, o comunque estranei alle effettive esigenze della giurisdizione”. “Destinatari della tutela, in ogni caso, non sono i parlamentari uti singuli, ma le assemblee nel loro complesso. Di esse si intende preservare la funzionalità, l’integrità di composizione (nel caso delle misure de libertate) e la piena autonomia decisionale, rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario…: il che spiega l’irrinunciabilità della garanzia”.

Ciò che viene in rilievo non é il pregiudizio del parlamentare, poiché “Il bene protetto si identifica…con l’esigenza di assicurare il corretto esercizio del potere giurisdizionale nei confronti dei membri del parlamento, e non con gli interessi sostanziali di questi ultimi (riservatezza, onore, libertà personale), in ipotesi pregiudicati dal compimento dell’atto; tali interessi trovano salvaguardia nei presidi, anche costituzionali, stabiliti per la generalità dei consociati.”

La Costituzione non contiene alcuna esplicita indicazione di parametri cui le camere dovrebbero attenersi nel valutare le richieste di autorizzazione, ma dalla ratio dell’istituto risulta evidente che è sostanzialmente estranea ogni valutazione sulla natura funzionale o meno dell’attività in questione, venendo invece in rilievo il fumus persecutionis e la necessità di operare un bilanciamento tra l’interesse al libero corso della giurisdizione penale e quello delle assemblee a conservare l’integrità del plenum, nel caso dell’arresto, o a garantire da ogni invadenza l’esercizio del mandato parlamentare, negli altri casi. Ciò appare confermato, a contrario, dalle ipotesi in cui la norma costituzionale esclude la necessità dell’autorizzazione all’arresto, e cioè la flagranza e la condanna irrevocabile, che escludono un intento persecutorio dell’autorità giudiziaria.

Una delle novità della riforma del 1993 è costituita dal terzo comma dell’art. 68 con il quale si prevede l’autorizzazione per sottoporre i membri del parlamento a intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza. L’art. 4, c. 1, della l. 140 estende la necessità dell’autorizzazione anche all’acquisizione di tabulati di comunicazioni. Anche in questi casi la finalità della tutela è sempre quella della libertà dell’esercizio del mandato parlamentare da condizionamenti e pressioni e, nonostante la materia, non viene in rilievo la salvaguardia della riservatezza del parlamentare in quanto tale.

Da ciò discende che necessitano di autorizzazione anche le “intercettazioni indirette”, cioè quelle in cui compare un parlamentare pur essendo state sottoposte a controllo utenze di altri soggetti, ma individuando quelle di persone con le quali il parlamentare abbia rapporti abituali. In altre parole, l’autorizzazione deve essere richiesta “tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione, ancorché questa abbia luogo monitorando utenze di soggetti diversi”. Restano invece esenti da autorizzazioni “le intercettazioni casuali o fortuite, rispetto alle quali – proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare – l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi del placet della camera di appartenenza.