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albo degli avvocati di Napoli

L’albo degli avvocati di Napoli è il più antico del mondo. Fu istituito nel 1780 da Ferdinando IV di Borbone.

L’albo fu compilato come attuazione del De Advocatorum Neapolitanorum Collegio instituendo, una prammatica del Re che istituì e regolamentò l’Ordine degli Avvocati di Napoli. Fu un evento dalla portata epocale: per la prima volta, infatti, l’avvocatura fu riconosciuta come un ordine indipendente, garantendo libertà e indipendenza nell’attività professionale, in particolar modo tenendosi distanti dall’influenza della Chiesa, ma anche dello stesso governo.

L’avvocatura napoletana ancora oggi vanta una delle più ricche e antiche tradizioni giuridiche italiane. Nei secoli ha sfornato uomini eccellenti e innovatori del diritto che hanno scritto pagine di Storia del mondo intero: da Giuseppe Tesauro, morto recentemente, a Enrico De Nicola, senza dimenticare le migliaia di targhe dedicate ai giuristi dell’Università di Napoli affisse lungo le strade di tutta Italia: da Michele De Jorio a Raffaele Conforti. E se non vogliamo guardare il numero notevole di presidenti di tribunali speciali, della Corte di Cassazione, Capi di Stato, ministri e legislatori, se guardiamo al passato troviamo giuristi campani addirittura nel primo progetto costituzionale moderno: le Assise di Ariano del 1140.

Questa tradizione così ricca di cultura e così avanzata nel pensiero non poteva non avere un promotore eccezionale: lo stupor mundi, Federico II, che non fu solo il padre della scuola giuridica napoletana con la fondazione della prima Università statale del mondo.

Fu anche il primo a stabilire un principio fondamentale del mondo giuridico moderno nelle sue Costituzioni di Melfi (che furono scritte in gran parte da Taddeo di Sessa, un esponente della scuola di Capua). Proprio qui, infatti, si sancì la separazione fra Stato e Chiesa e l’avvocatura, in linea con gli antichi insegnamenti dei Romani, era individuata come un organo indipendente da qualsiasi influenza.

Gli avvocati napoletani dimostreranno questo orgoglioso attaccamento alla propria libertà professionale anche 400 anni dopo i tempi del Regno di Sicilia, nella piena epoca vicereale, quando il viceré Antonio Alvarez de Toledo provò ad obbligare gli avvocati al giuramento davanti al Sant’Uffizio come condizione necessaria per esercitare la professione.

Magistrati, avvocati e notai, nel 1628, si radunarono nel monastero dei santi Severino e Sossio per firmare un documento in cui affermarono che non avrebbero svolto la propria professione in caso di giuramento davanti alla Chiesa. Fu probabilmente il primo sciopero forense della storia e portò i suoi frutti: il viceré fu costretto a tornare sui suoi passi.

La professione forense a Napoli era considerata una vera e propria casta ricca e privilegiata e non a caso l’avvocatura era ambitissima dalle province, in special modo dalla vicina Calabria: i giovani studenti calabresi di giurisprudenza diventarono addirittura una maschera del carnevale napoletano, assieme agli avvocati soprannominati “paglietta” per il loro cappello che li caratterizzava.

Il problema, però, è che non tutti gli avvocati erano brave persone: il professore Aurelio Cernigliaro racconta che una pratica molto comune fra gli avvocati napoletani del passato era quella di seminare zizzania fra i vicini di casa per indurli a farsi causa fra di loro, così come era notoria la litigiosità dei napoletani, che affollavano la complessissima macchina burocratica napoletana.

Ferdinando IV soprannominò questi avvocati traffichini “cavillosi e scostumati uomini che deturpano una nobile Professione” e, con l’intento di regolamentare la professione attraverso un consiglio dell’Ordine, seguì il consiglio del Segretario di Stato, il potentissimo Carlo De Marco, e lasciò nelle sue mani la realizzazione del primo regolamento dell’Ordine degli Avvocati.

L’ordine degli avvocati fu diviso in tre classi: “Avvocati“, “Professori di legge e avvocati” e “Procuratori“. All’interno dell’Ordine, inoltre, sarebbero stati individuati dagli stessi avvocati “i Censori”, che altro non erano se non un consiglio di disciplina per valutare i propri colleghi.

I professori di legge hanno poi un capitolo a parte: non dovevano infatti sostenere alcun esame per diventare avvocati, ma erano sottoposti a un controllo molto rigoroso: qualora fossero stati sorpresi a “difendere cause notoriamente ingiuste“, a comportarsi in modo scorretto fra colleghi (ad esempio sparlando di altri avvocati) o a maltrattare il personale del tribunale, addirittura avrebbero perso non solo la toga, ma anche la cattedra all’Università.

I laureati erano costretti a fare tre anni di praticantato e alla fine sostenere un esame davanti al Consiglio dell’Ordine prima di essere iscritti all’Albo degli Avvocati di Napoli, in modo non molto diverso da quello attuale. Una volta ottenuta l’iscrizione nell’albo, i giovani avvocati nei primi due anni potevano solo “patrocinare le cause dei poveri“.

I due più bravi studenti dell’anno accademico, selezionati dai Censori, avevano inoltre la possibilità di mettersi in mostra in tre date dell’anno attraverso la scrittura di pareri e interpretazioni di legge da declamare dinanzi alla Real Camera di Santa Chiara: si trattava di un privilegio per pochissime persone che dava grandissimo prestigio ai futuri avvocati.

Un’altra innovazione interessante del regolamento di Ferdinando IV è il fatto che, almeno in teoria, tutti potevano diventare avvocati. In un primo momento era previsto che bisogna essere “di civili natali”, poi si estende la possibilità di entrare nell’avvocatura anche alle persone di estrazione sociale modesta ma che, per “rarità nel talento” o per bravura particolare negli studi, si distinguono sugli altri. Gli studi erano costosissimi e possibili solo per famiglie nobili o per persone abbastanza ricche, quindi l’avvocatura rimaneva comunque una casta per pochi. I più poveri potevano tentare la fortuna entrando in monasteri o studiando comunque in ambienti ecclesiastici, ma non era una scelta frequente nella prassi.