riciclaggio ed autoriciclaggio

La disposizione di cui all’art 648 bis c.p., nel prevedere la figura delittuosa di riciclaggio, sanziona – fuori dai casi di concorso nel reato – chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da 5.000 euro a 25.000 euro.
Il secondo comma prevede un aggravamento di pena allorquando il fatto risulta commesso nell’esercizio di un’attività professionale; mentre la pena è diminuita, secondo il disposto del terzo comma, per l’ipotesi in cui il denaro, i beni o le altre utilità provengano da un delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni.
Per espressa previsione dell’ultimo comma, infine, il reato in esame sussiste anche quando l’autore del delitto da cui il denaro o le cose provengono non è imputabile o non è punibile, ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto.
La diversità degli obiettivi perseguiti dai molteplici interventi normativi adottati con riferimento al delitto di riciclaggio, ha avuto importanti ripercussioni sull’individuazione dell’oggetto giuridico del reato stesso.
Nel codice, il delitto in esame trova la sua collocazione nel Titolo XIII del libro secondo, dedicato ai reati contro il patrimonio ed in particolare nel Capo II avente ad oggetto i delitti commessi mediante frode, tuttavia l’articolato excursus storico del reato, facilmente confonde gli interpreti del diritto in ordine all’individuazione del bene tutelato dalla norma.
Va osservato, del resto, che se in origine l’obiettivo che si cercava di perseguire attraverso l’introduzione della norma di cui all’art. 648 bis c.p.  era quello di disincentivare la realizzazione di alcuni reati ritenuti particolarmente allarmanti, ostacolando l’impiego dei proventi da essi derivanti, in un’ottica di tutela del patrimonio del singolo, con l’evolversi della fattispecie incriminatrice il legislatore ha inteso impedire le condotte di intralcio alla giustizia e di contaminazione dei mercati con un’economia illecita.
È cosi, invero, che il delitto in commento ha assunto la caratteristica di reato pluri-offensivo, tutelando, da un lato, gli interessi patrimoniali aggrediti a seguito dei delitti presupposto, e, dall’altro, l’amministrazione della giustizia, l’ordine pubblico nonché quello economico-finanziario.
In questa prospettiva, la modifica del reato di riciclaggio si spiega attraverso l’intento di reprimere quelle condotte che pregiudicano o rendono maggiormente complesso l’accertamento della provenienza illecita dei beni e quindi lo svolgimento delle indagini, nonché l’inquinamento dell’economia e del mercato, attuato con la ricollocazione di ricchezze illecite in un flusso di capitali leciti.
La diversità degli obiettivi perseguiti dai molteplici interventi normativi adottati con riferimento al delitto di riciclaggio, ha avuto importanti ripercussioni sull’individuazione dell’oggetto giuridico del reato stesso. Nel codice, il delitto in esame trova la sua collocazione nel Titolo XIII del libro secondo, dedicato ai reati contro il patrimonio ed in particolare nel Capo II avente ad oggetto i delitti commessi mediante frode, tuttavia l’articolato excursus storico del reato, facilmente confonde gli interpreti del diritto in ordine all’individuazione del bene tutelato dalla norma. Alla luce del dettato normativo sopra richiamato, si deve rilevare come, presupposto indefettibile per l’esistenza del reato, sia la commissione anteriore di un delitto non colposo. Appare imprescindibile rilevare come il costante orientamento giurisprudenziale non richieda l’esatta individuazione della tipologia del delitto presupposto, essendo sufficiente che venga raggiunta la prova logica della provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni di ripulitura compiute. Cionondimeno, neppure risulta indispensabile che il reato presupposto sia giudizialmente accertato, dovendo unicamente essere ritenuto sussistente, in via incidentale, dal giudice procedente per il reato di cui all’art. 648 bis c.p. e non dovendo essere stato escluso, in via definitiva, da altra Autorità giudiziaria. Sulla scorta di tale interpretazione, non saranno suscettibili di escludere la configurabilità del reato di riciclaggio i decreti di archiviazione e le sentenze di non luogo a procedere relativi ai delitti presupposti, trattandosi di provvedimenti non irrevocabili.
La norma sul riciclaggio pone un interessante questione interpretativa in ordine alla individuazione del soggetto attivo del reato. La fattispecie incriminatrice in esame è costruita come un reato a soggettività ristretta, in quanto lo stesso, secondo il dettato normativo, può essere commesso da chiunque, a condizione che il soggetto non sia autore o concorrente del reato presupposto, come emerge dalla clausola di esclusione della norma de qua. Su tale presupposto si era sviluppato un consolidato filone dottrinale che riteneva la non punibilità delle condotte successive alla commissione del reato e dirette ad assicurarne il profitto, poiché rientranti nella categoria del post factum non punibile, secondo la teoria della consunzione, per cui la punizione del reato antecedente esaurisce il disvalore complessivo del fatto illecito, atteso che la condotta successiva rappresenta unicamente lo sviluppo logico di quella precedente. Tanto che la giurisprudenza aveva affermato la non integrazione del reato di riciclaggio in presenza di una condotta di impiego nelle proprie attività economiche del denaro ricavato dalle condotte illecite compiute dal medesimo soggetto. Il quadro oggi risulta rilevantemente mutato, a seguito dell’introduzione, ad opera della L. 186/14,  dell’art. 648 ter – 1 c.p.  che punisce il delitto di auto-riciclaggio. La neo introdotta fattispecie criminosa punisce, con la reclusione da due a otto anni e la multa da 5.000 a 25.000 euro, chiunque – avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo – impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Senza volersi soffermare oltremodo sulle problematiche concernenti tale nuova disposizione incriminatrice, si notano immediatamente i profili di criticità che sorgono dal confronto con il delitto di riciclaggio. Buona parte della dottrina non ha, infatti, esitato a denunciare le possibili violazioni dei principi generali del diritto penale, sostenendo, in primis, che le condotte post delictum realizzate per ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni e del denaro costituirebbero un post factum non punibile, essendo, la normale prosecuzione del reato commesso, priva di autonomo disvalore.  In secondo luogo, è stato affermato che la condotta punita dal reato di auto- riciclaggio sarebbe parte integrante del reato presupposto, per cui non sarebbe punibile in ossequio al principio del ne bis in idem. Inoltre, alcuni autorevoli autori avrebbero affermato che la fattispecie di nuova introduzione risulterebbe altresì in contrasto con il principio per cui nemo tenetur se detegere, in virtù del quale nessuno può essere tenuto all’autoincriminazione. Da ultimo, è stato sollevato anche il problema dell’incongruità del trattamento sanzionatorio cui andrebbe incontro il soggetto ritenuto responsabile dei reati di riciclaggio e auto-riciclaggio. Gli evidenziati contrasti della nuova disposizione con i principi di garanzia sopra accennati, nonché i difficili contorni applicativi della clausola di esclusione propria del reato di riciclaggio rappresentano problematiche di cui la dottrina ma soprattutto la giurisprudenza si stanno iniziando ad occupare ma che certamente non saranno di facile risoluzione. L’elemento soggettivo del reato di riciclaggio è connotato dalla consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità e risulta integrato dal dolo generico, che ricomprende sia la volontà di compiere le attività dirette ad impedire od ostacolare l’identificazione della provenienza illecita della res, sia, appunto, la consapevolezza di tale provenienza. Riguardo al momento consumativo del delitto in parola, esso va individuato nell’azione della sostituzione, del trasferimento o dell’operazione che ostacola l’identificazione della provenienza delittuosa. Pur essendo a consumazione istantanea, il riciclaggio è un reato a forma libera che può perfezionarsi anche attraverso modalità frammentarie e progressive, trasformandosi, in tale ipotesi, in reato eventualmente permanente, la cui consumazione viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere. Quanto alla configurabilità del tentativo, abbandonata la formulazione della fattispecie come reato a consumazione anticipata, lo stesso deve ritenersi certamente configurabile.  La linea di demarcazione tra i delitti di ricettazione e riciclaggio è stata chiaramente tratteggiata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale ha offerto precisi criteri discretivi per diversificare le due fattispecie. Ai sensi dell’art. 648 c.p. commette il delitto di ricettazione, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da qualsiasi delitto. Ebbene, se da un lato, i due delitti in oggetto sono accomunati dal presupposto del reato, ovvero la provenienza illecita del bene, le differenze strutturali vanno individuate nell’elemento oggettivo e in quello psicologico. Con riferimento al primo aspetto, basta osservare che la ricettazione si consuma essenzialmente con la ricezione della res delittuosa, mentre nel riciclaggio occorre un quid pluris, dovendosi realizzare un’attività ulteriore di ostacolo all’identificazione delle tracce della provenienza delittuosa dei beni.
Differente è anche l’elemento psicologico, che nella ricettazione è qualificabile nel dolo specifico costituito dal fine di procurare a sé o ad altri un profitto, mentre nel riciclaggio richiede solo il dolo generico, inteso, come visto, quale volontà di ripulire il denaro, i beni o le altre utilità. Il rapporto che intercorre tra le due fattispecie è, all’evidenza, quello della specialità, dovendosi ritenere – così come affermato costantemente dalla giurisprudenza – che il riciclaggio sia norma speciale rispetto alla ricettazione, individuando il nucleo comune, nella ricezione del bene di provenienza illecita e, l’elemento specializzante, in quella particolare condotta di ostacolo all’identificazione dell’origine delittuosa. Si è osservato che, in linea astratta, è possibile ipotizzare un concorso materiale di reati tra le due fattispecie, quando all’azione del ricevere i beni che provengono da un delitto, al fine di ottenere un profitto, consegua una successiva condotta di sostituzione. Ipotesi, come detto, teoricamente configurabile, ma che sul piano pratico trova residuali spazi applicativi atteso che, di norma, la condotta di sostituzione del denaro “sporco” con quello “pulito” elimina il momento della ricezione come autonomo fatto lesivo, atteggiandosi a mero antefatto non punibile. Alla luce di tale considerazione, pertanto, il concorso tra i menzionati reati sarebbe ammissibile solo nel caso si tratti di condotte distinte, tanto sul piano psicologico, che materiale, oltre che cronologico. La giurisprudenza di legittimità, con due pronunce conformi, ha ritenuto ammissibile il concorso tra la ricettazione ed il riciclaggio nell’ipotesi in cui, sia pure in un unico contesto temporale, un soggetto riceva una pluralità di cose di provenienza delittuosa, appartenente alla medesima persona, rendendosi responsabile, con riferimento ad alcune di esse, del reato di ricettazione e, con riferimento ad altre, di quello di riciclaggio. In tal caso, ad avviso del supremo Consesso, si è infatti in presenza di una pluralità di eventi giuridici e quindi di reati; non si tratta, invero, di un concorso apparente di norme in relazione alla medesima condotta ma di distinti reati commessi con riferimento a beni diversi. Deve, peraltro, osservarsi che parte della dottrina ritiene, invece, che tra le due fattispecie vi sia un rapporto di specialità reciproca. Secondo tali autorevoli autori, infatti, il riciclaggio sanziona una condotta concretamente idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro o dei beni, mentre la ricettazione prevede, in aggiunta, un dolo specifico. Di conseguenza, secondo tale filone interpretativo, una condotta finalizzata al profitto ricadrebbe nell’alveo della ricettazione, salvo che non risulti palese l’idoneità della stessa ad ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa dei beni. Ancora più problematici sono i rapporti tra il riciclaggio e l’impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita.  La norma sanziona chiunque, fuori dai casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto. La clausola di sussidiarietà contenuta nella norma va interpretata come volta ad escludere i comportamenti di coloro che impiegano il denaro, i beni o le altre utilità, avendoli ricevuti direttamente dagli autori dei reati presupposto. L’impiego dei predetti beni da parte di questi soggetti costituisce, pertanto, per espressa previsione legislativa, un mero post factum non punibile dei reati di ricettazione e riciclaggio, analogamente a quanto previsto per il concorrente nel reato presupposto che investa il provento della sua attività criminosa. L’applicabilità della norma, dunque, rimane rilegata all’ipotesi – di residuale realizzazione – in cui la ricettazione o il riciclaggio siano già stati effettuati da altri ed i successivi ricettori impiegano il denaro ricevuto nella consapevolezza della sua provenienza delittuosa.