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aggravante della tansnazionalità

Giovanni Falcone nel 1992, in occasione della prima riunione della Commissione sulla Prevenzione della Criminalità e per la Giustizia Penale in seno alle Nazioni Unite, auspicava l’introduzione di una legislazione sovranazionale finalizzata alla lotta alle forme di criminalità organizzata. La raggiunta presa di coscienza del problema ha, perciò, determinato la Comunità internazionale a promuovere nuovi strumenti di contrasto al crimine organizzato: nacque così, nel dicembre del 2000, anche grazie al contributo fornito dall’Italia, la c.d. Convenzione di Palermo, recepita nell’ordinamento nazionale solo sei anni più tardi mediante la legge n. 146/2006. Con la legge n. 146/2006 il legislatore ha dato ratifica ed esecuzione in Italia alle disposizioni pattizie della Convenzione di Palermo, introducendo negli articoli 3 e 4, rispettivamente, la nozione di reato transnazionale e la circostanza aggravante della transnazionalità. L’articolo 3 della citata legge àncora la qualificazione del reato transnazionale al concorso di tre distinti parametri:

Il primo parametro è connesso alla gravità del reato: deve trattarsi di un delitto punito con una pena non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione.
Il secondo parametro prevede il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato
Il terzo parametro concerne, alternativamente: a) la commissione del reato in più di uno Stato; b) la commissione del reato in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato; c) la commissione del reato in uno Stato, ma l’implicazione in esso di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato, ovvero d) la commissione del reato in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in un altro Stato.
Trattasi, pertanto, non già di un’autonoma ipotesi di reato, ma di una qualifica trasversale applicabile a qualsivoglia fattispecie criminosa rispondente alle caratteristiche dettate dall’art. 32. Pur foriera di rilevanti effetti sul piano della disciplina sostanziale e processuale – quali, a mero titolo esemplificativo, l’applicabilità di particolari sanzioni amministrative in misura determinata, la confisca obbligatoria anche per equivalente ai sensi dell’art. 11 della stessa normativa, l’estensione dei poteri di indagine del Pubblico Ministero nel termine e ai fini di cui all’art. 430 del codice di rito – la definizione di “reato transnazionale” dettata dall’articolo 3 della legge 146/2006 non prevede, tuttavia, alcuna sanzione in termini di aggravamento della pena.Al contrario, il successivo articolo 4, circoscritto unicamente ai “reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato”, introduce una circostanza aggravante ad effetto speciale che prevede un importante aumento di pena (da un terzo alla metà), non soggetto al giudizio di bilanciamento con circostanze attenuanti diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale. Meritevole di un aggravamento della pena, quindi, è stato ritenuto non già il reato transnazionale in sé, bensì un’unica ipotesi di reato transnazionale, quella dettata dalla lettera c) del precedente articolo 34. In altre parole, l’aggravante potrà essere applicata, se e solo se, il reato alla quale è riferita abbia il carattere della transnazionalità, sebbene, al contrario, non ogni reato transnazionale potrà rientrare nell’ambito di applicazione della suddetta aggravante (restandone esclusi, infatti, i reati transnazionali di cui alle lettere a,b e d dell’art. 3). Fin dalle prime applicazioni pratiche della legge 146/2006, come prevedibile, non sono mancati contrasti interpretativi. Il principale, in giurisprudenza, riguardava la compatibilità, o meno, della circostanza aggravante della transnazionalità con i reati associativi in genere. L’orientamento maggioritario in seno alla Corte regolatrice, limitandosi a far leva sulla formulazione letterale della norma (la quale dispone l’applicabilità dell’aggravante ad ogni reato, senza alcuna esclusione, purché punito con pena superiore a quattro anni di reclusione) riteneva l’applicabilità tout court dell’aggravante alle compagini associative, richiedendone quale unico presupposto l’operatività dell’associazione in più di uno Stato. Un minoritario orientamento (costituito, ad onor del vero, da una sola isolata pronuncia, la sentenza Dalti, Cass. 1937/2010 sez. V), al contrario, ne sosteneva l’ontologica e concettuale incompatibilità sul riflesso che, non potendo ipotizzarsi l’esistenza di un gruppo criminale che contribuisca all’esistenza di sé stesso (l’associazione per delinquere appunto), la circostanza aggravante potesse essere applicata unicamente ai reati fine dell’associazione. Il contrasto interpretativo veniva affrontato dalla Corte di Cassazione nella sua più autorevole composizione, e risolto con il seguente principio di diritto: “la speciale aggravante dell’art. 4 della legge 16 marzo 2006 n. 146, è applicabile al reato associativo, sempreché il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l’associazione stessa” (sentenza “Adami” Cass. Sez. Un. n. 18374 del 31.1.2013). La conclusione cui sono pervenute le Sezioni Unite trae spunto da una duplice argomentazione: da un lato il generico riferimento testuale della norma a qualsiasi reato porterebbe a ritenere che l’apporto causale di un gruppo organizzato transnazionale possa spiegarsi nei confronti di qualsivoglia espressione delittuosa, e dunque anche di quella associativa; dall’altro lato, si giungerebbe alla stessa conclusione avendo comunque riguardo alle linee ispiratrici della Convenzione di Palermo, certamente orientate ad estendere la tutela degli ordinamenti nazionali ad ipotesi delinquenziali associative di ambito transnazionale. L’intero impianto motivazionale tracciato dalle Sezioni Unite è stato sviluppato intorno ad un preliminare, indispensabile, chiarimento circa la corretta identificazione di “gruppo criminale organizzato” e la relativa distinzione con l’associazione per delinquere beneficiaria del contributo offerto dal gruppo. La tesi sostenuta dalla già richiamata Cassazione Dalti, orientata in favore dell’ontologica incompatibilità tra l’aggravante e i reati associativi, risentirebbe, infatti, a detta delle Sezioni Unite, di un vero e proprio equivoco di fondo laddove erroneamente identifica, o comunque sovrappone, l’associazione per delinquere con il gruppo criminale organizzato, per così giungere ad escludere la configurabilità dell’aggravante nei reati associativi. “La formulazione normativa dell’aggravante, infatti, nella parte in cui evoca il contributo causale, lascia chiaramente intendere”, chiariscono le Sezioni Unite, “che presupposto indefettibile della sua applicazione è la mancanza di immedesimazione tra le due realtà associative, richiedendo, difatti, che associazione per delinquere e gruppo criminale organizzato si pongano come entità o realtà organizzative diverse”. “La locuzione “dare contributo” postula, infatti, “alterità” o diversità tra i soggetti interessati, ossia tra soggetto agente (il gruppo organizzato) e realtà plurisoggettiva beneficiaria dell’apporto causale”. In questo senso, e per semplificare, ritengono le Sezioni Unite che “gruppo criminale organizzato” e associazione per delinquere siano due entità distinte, non sovrapponibili neppure in minima parte, e che per tale ragione l’aggravante della transnazionalità sia applicabile alle fattispecie associative solo allorquando il contributo richiesto dalla norma sia fornito da parte di un gruppo criminale organizzato (diverso dall’associazione per delinquere appunto) operante in più di uno Stato. Tale approccio interpretativo, seppur certamente coerente con l’obiettivo perseguito dalla Convenzione di Palermo, desta oggi, tuttavia, non poche perplessità. E ciò non tanto circa il rapporto tra i reati associativi e l’aggravante della transnazionalità, quanto piuttosto rispetto alla configurabilità dell’aggravante stessa nei reati diversi dall’associazione per delinquere e, segnatamente, nei reati fine dell’associazione medesima Il quadro di assoluta incertezza interpretativa che è scaturito a seguito della sentenza Sez. Un. 18374/2013 ha infatti subito determinatoun nuovo inevitabile contrasto. In altri termini, ci si chiede: il concetto di alterità tra l’associazione per delinquere e il gruppo criminale organizzato, principio cardine dell’insegnamento delle Sezioni Unite Adami, è da considerarsi ad esclusivo appannaggio delle fattispecie associative, ovvero al contrario, costituisce principio generale valido anche allorquando l’aggravante acceda ai reati fine dall’associazione per delinquere? E per l’effetto, potrà dirsi configurabile l’aggravante nei reati fine dell’associazione allorquando il gruppo criminale organizzato sia esso stesso l’associazione per delinquere? In giurisprudenza si riscontra un indirizzo numericamente maggioritario orientato verso l’applicabilità dell’aggravante ai reati fine dell’associazione anche in caso di immedesimazione tra associazione per delinquere e gruppo criminale organizzato nel quale si rileva che, l’omessa estensione, nella sentenza delle Sezioni Unite, del principio dell’alterità tra le due realtà plurisoggettive rispetto al caso dei reati fine dell’associazione lascerebbe intendere che, in quest’ultimo caso, il massimo consesso abbia voluto affermare un implicito opposto principio di diritto. Si sostiene, del resto, che sarebbe del tutto paradossale estendere il principio dell’alterità anche ai reati fine dell’associazione per delinquere atteso che, così ragionando, solo gli associati potrebbero beneficiare della “copertura” derivante dalla sovrapposizione tra gruppo criminale organizzato e associazione per delinquere mentre, al contrario, soggetti non facenti parte dell’associazione ma concorrenti con gli associati rispetto ad un reato fine dell’associazione sarebbero, contro ogni ragionevolezza, puniti più gravemente. Un secondo minoritario e meno recente filone giurisprudenziale facendo leva principalmente sull’interpretazione letterale fornita dalle Sezioni Unite in ordine all’espressione normativa “dare il proprio contributo” riportata nell’art. 4, ritiene doveroso, ai fini dell’applicabilità dell’aggravante in questione ai reati fine dell’associazione, che sia accertata l’alterità tra il gruppo criminale organizzato e l’associazione per delinquere. La questione appare tutt’altro che marginale. Si pensi, ad esempio, ad un’associazione per delinquere dedita all’ importazione in Italia di ingenti quantità di sostanze stupefacenti da un qualsiasi Stato estero: qualora l’associazione criminale, come sovente accade, abbia una consolidata articolazione nello Stato estero, e quindi non necessiti di alcun contributo ai fini dell’importazione in Italia delle sostanze illecite, sarà possibile configurare la suddetta aggravante alle singole fattispecie di importazione commesse dagli associati, seppur questi ultimi non abbiano beneficiato di contributi diversi da quello fornito dal vincolo associativo? Aderendo al già citato orientamento maggioritario gli associati, pur non essendo punibili più gravemente per aver esteso la struttura dell’associazione criminale oltre i confini nazionali (ivi mancandovi, rispetto al reato associativo, l’apporto di un gruppo criminale organizzato “esterno”), meriterebbero comunque un aggravamento della pena per aver posto in essere le singole condotte di importazione avendo beneficiato del contributo offerto dall’associazione per delinquere cui essi stessi partecipano. Sarebbe possibile, infatti, unicamente in quest’ultimo caso, e contrariamente a quanto accade nel caso dei reati associativi, individuare il “gruppo criminale organizzato” citato nell’art. 4 nell’associazione per delinquere stessa. Ex adverso, sposando il minoritario indirizzo orientato ad estendere il principio dell’alterità tra le due realtà plurisoggettive anche qualora l’aggravante acceda ai reati fine dell’associazione, in assenza di un gruppo criminale organizzato “esterno” (diverso dall’associazione per delinquere), non sarà possibile determinare l’aggravamento della pena né dell’associazione per delinquere transnazionale, né dei relativi reati fine. Se la prima soluzione interpretativa sembra porsi apertamente in contrasto con il principio di diritto offerto dalle Sezioni Unite Adami, la seconda soluzione pare attribuire certamente continuità all’interpretazione del massimo consesso, pur non riuscendo (apparentemente) a superare le perplessità avanzate dai fautori della contrapposta tesi. Non può certamente negarsi che l’attuale contrasto sia stato reso ancor più difficilmente risolvibile a causa di un’interpretazione letterale e sistematica, quella offerta dalle Sezioni Unite, che ha destato in dottrina forti perplessità. La principale tensione dogmatica emergente a ridosso dell’enunciazione del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite concerne la nozione di “contributo” richiesto da parte del gruppo criminale organizzato: ampiamente contraddittorio appare, infatti, il passaggio in cui i Giudici osservano che, in presenza del contributo di un gruppo transnazionale, l’aggravante di cui all’art. 4 si applicherebbe all’associazione “a prescindere dalla circostanza che il contributo offerto dal gruppo criminale organizzato impegnato in più di uno Stato renda, poi, quello stesso gruppo partecipe o concorrente nel reato associativo comune”. Il principio, difatti, si pone in evidente contrasto con il requisito dell’alterità tra associazione e gruppo criminale organizzato posto che, così ragionando, la partecipazione o il concorso del gruppo (rectius: dei suoi membri) nell’associazione comune provocherebbe l’esistenza di un unico reato associativo, e quindi il venir meno dell’alterità tra le due strutture. Sul punto, non può omettersi di rilevare come permangano ulteriori, fondamentali, incertezze generate dalla pronuncia in parola: cosa significa che il “gruppo” deve dare un contributo? È necessario che il contributo venga prestato anche solo da un singolo componente del gruppo ovvero è richiesto il coinvolgimento di più di un soggetto ovvero dell’intero gruppo? Rileva che tale contributo debba riguardare l’ordinaria attività criminosa del gruppo o può essere anche di diversa natura? Tutti interrogativi che, allo stato, rimangono senza risposta. Non può certo non evidenziarsi, inoltre, il paradossale esito derivante dalla sentenza in parola: la diretta conseguenza del principio di alterità tra le strutture comporta, infatti, la possibilità di applicare una pena più severa ad una associazione per delinquere italiana adiuvata da un gruppo transnazionale, rispetto a quella che potrebbe riconoscersi ad un’unica associazione italiana operante oltre i confini nazionali, magari dotata di una struttura ampia e complessa e con basi operative in vari Stati esteri, nonostante in questo ultimo caso il disvalore penalistico risulti di gran lunga superiore. Per ultimo, certamente la più grave delle mancanze, pare essere il mancato chiarimento circa la portata, universale od esclusiva, del principio dell’alterità tra gruppo criminale organizzato e associazione per delinquere: lacuna determinante nel generare l’odierno, irrisolto, contrasto giurisprudenziale. Ciò che invece pare certo è che il principio di diritto adottato dalle Sezioni Unite, restringendo fortemente l’ambito di applicazione dell’aggravante in oggetto rispetto alle fattispecie associative, determini un grave discostamento della normativa interna dallo scopo dello strumento pattizio. Doveroso, tuttavia, dare atto che, seppur aspramente criticata in sede dottrinale, la pronuncia delle Sezioni Unite 18374/2013 risulta, ad oggi, non solo insuperata ma neppure mai posta in discussione dalla successiva giurisprudenza di legittimità: a seguito della pronuncia in parola, infatti, le associazioni per delinquere operanti in più di uno Stato non sono (più) riconosciute come aggravate ex art. 4 l. 146/2006, salvo naturalmente l’accertamento di un gruppo criminale organizzato “esterno” che abbia contribuito causalmente alla costituzione o alla permanenza dell’associazione stessa. Pare del tutto evidente che l’oscura formulazione letterale dell’art. 4 della legge n. 146/2006 renda indispensabile un intervento legislativo volto a delimitare con precisione i confini della norma e superare definitivamente tutte le incongruenze generate dall’attuale formulazione testuale35. Ad ogni modo, in attesa dell’indispensabile intervento legislativo, pare oggi ragionevole affermare che – coerentemente con il ragionamento giuridico sotteso al principio di diritto adottato dalle Sezioni Unite 18374/13, con la formulazione letterale della norma, e con l’intenzione del legislatore – l’unica soluzione interpretativa idonea ad assicurare l’uniforme applicazione della legge sia quella volta a configurare l’applicabilità dell’aggravante della transnazionalità ai reati fine dell’associazione per delinquere solo allorquando il gruppo criminale organizzato che presti il contributo alla commissione del reato non coincida (per nulla) con l’associazione per delinquere stessa, ovvero, comunque con i concorrenti nel reato. Qualora, al contrario, si ritenesse la configurabilità dell’aggravante nei reati fine dell’associazione per delinquere in presenza di coincidenza (o sovrapposizione) tra l’associazione per delinquere (ovvero, comunque, tra i concorrenti nel reato) e il gruppo criminale organizzato, sembra indispensabile, nel rispetto dell’uniforme interpretazione della legge e della coerenza sistematica, superare pienamente il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite, in modo tale da escludere, in base all’attuale formulazione della norma, la compatibilità tra il reato di associazione per delinquere e l’aggravante della transnazionalità.